giovedì 26 settembre 2013

Clima caldo e secco - L’Egitto – vivere in un’oasi


Geografia e clima

L’Egitto (1) è un paese prevalentemente desertico; solo il 3,5 per cento del territorio, ossia 35.000 chilometri quadrati, è coltivabile e permanentemente abitato. La maggior parte di questa zona appartiene alla valle del Nilo e al suo delta, dove il 99 per cento degli egiziani vive in una specie di oasi fluviale che costituisce una delle zone africane più favorevoli alla vita e accogliente per l’uomo.


Questa oasi uesta oasisi estende per una lunghezza di più di mille chilometri tra il 31° e il 24° parallelo in direzione nord-sud e ha una larghezza massima di una quarantina di chilometri. Senza il grande fiume del Nilo, l’Egitto sarebbe totalmente deserto.

Oltre alla valle del Nilo e il delta esiste una terza zona fertile, il Fayyum, un’estesa oasi nel deserto occidentale, situata a circa 130 chilometri a sudovest del Cairo.  Il Fayyum, chiamato anche ”orto della capitale”, riceve acqua dal Nilo attraverso il canale Bahr Yusuf che termina in un lago senza emissario. Nel periodo predinastico, cioè nel IV millennio a.C., il Fayyum era una palude che, durante il Medio Regno (2010–1793 a.C.), fu bonificata dai faraoni Amenhemhet II (1914 – 1876 a.C.) e Sesostri II (1882–1872 a.C.) trasformandola in una fertile zona agricola. Il suo capoluogo era Shedet chiamato dai greci Crocodilopolis/Arsinoe.
 
L’Egitto è il paese del sole per eccellenza e si trova nella cintura arida dell’Africa settentrionale dove le precipitazioni sono scarse e le escursioni termiche giornaliere e stagionali sono notevoli. Solo sulla costa mediterranea e nel delta del Nilo si registrano rilevanti precipitazioni invernali (100 - 200 mm). A sud del Cairo, le piogge cominciano a scarseggiare e, risalendo il fiume, il clima diventa sempre più caldo e secco: la piovosità si riduce a 5-30 mm. Nella valle superiore, a Luxor e ad Assuan, si contano annualmente al massimo due giornate piovose.
In gennaio, la temperatura media giornaliera è di circa 20°C al nord (Il Cairo) e 24°C al sud (Assuan). Durante la notte, le temperature subiscono un brusco abbassamento. In luglio, le temperature giornaliere raggiungono i 35°C al Cairo e i 42°C ad Assuan, dove le temperature estive possono superare anche i 50°C, ma grazie alla bassissima umidità dell’aria, queste temperature rimangono tuttavia sopportabili.

Tra marzo e giugno soffia il Chamsin, un vento caldo proveniente da sud che porta con sé sabbia e polvere. Un po’ più gradevole è il clima sulla costa del Mar Rosso, dove le estati sono meno calde. Con temperature diurne verso i 20°C e quelle notturne tra 10 e 13°C, gli inverni sono abbastanza miti. La primavera e l’autunno sono caldi con periodi in cui il termometro sale oltre i 40°C e, durante la notte, non scende sotto i 25°C. Nell’arco di tutto l’anno, l’umidità dell’aria varia tra il 35 e il 50 per cento. Le precipitazioni sono quasi totalmente assenti.

La crescita di una civiltà

A partire di circa 5000 a.C. appaiono sul territorio dell’odierno Egitto delle civiltà neolitiche, le prime nella regione del Fayyum e nel delta del Nilo. Questi primitivi agricoltori producono una rozza ceramica, ma usano ancora prevalentemente utensili di pietra e di ossa (civiltà Merimde).  Verso circa il 4500 a.C. nell’Egitto superiore si manifesta la civiltà Badari; inizia la lavorazione di rame; la ceramica è ora decorata e reca delle raffigurazioni. Alla civiltà Badari segue quella Negade e si sviluppano piccoli centri urbani con una maggiore differenziazione sociale.  Verso il 3200 a.C.  la civiltà Negade è diffusa in tutto l’Egitto e appaiono le prime testimonianze di una scrittura. Le fonti egizie parlano di un re Menes, il primo re della prima dinastia, che abbia regnato su tutto l’Egitto verso il 3000 a.C., unendo l’Alto e il Basso Egitto. La capitale della prima dinastia è Menfi, i suoi re sono sepolti in tombe monumentali prima presso Abido, più tardi a Menfi. Progrediscono la scrittura, l’architettura e l’arte.

Le dimore primitive


Fino a non molto tempo fa, le comune abitazioni degli antichi egizi erano poco conosciute, soprattutto perché le ricerche archeologiche si erano concentrate quasi unicamente sui monumenti più importanti, in particolar modo sulle tombe. Soltanto negli ultimi due decenni la situazione è cambiata e, attualmente, sono in corso ricerche archeologiche relative agli insediamenti di Elefantine, Buto, Ain Asil, Tell el-Dhaba e Abido.

Le nostre conoscenze delle abitazioni antiche d’epoca predinastica (prima del 3150 a.C.) fino al Medio Regno, si limitano a pochissimi esempi perché le primitive dimore delle comunità agrarie erano fatte di giunco e di fango, materiali troppo poco duraturi per resistere al passare dei secoli. Di quel periodo conosciamo meglio le case dei morti piuttosto che quelle dei vivi.

I più antichi insediamenti predinastici sono stati ritrovati nel Fayyum. Nella maggior parte dei casi si tratta di insediamenti stagionali, costruiti su colline lungo la riva settentrionale del lago che una volta era più esteso di quanto non lo sia oggi.

 
Capanne costruite con canne in cui vivono i pescatori di Baltim durante la stagione estiva. Baltim si trova tra il Lago di Borlus e il Mediterraneo.

Uno degli insediamenti non stagionali è quello di Merimda Beni Salama. Anche qui la gente abitava in capanne costruite con stuoie di canna e di vimini cosparse di fango che proteggevano dal sole e dal vento, ma queste costruzioni avevano già fondamenta fatte con pietre posate su un letto di fango. Il grano raccolto era di solito conservato in silos interrati rivestiti con intrecci di vimini. Si allevavano ovini, bovini e suini. I morti erano sepolti, senza corredo funebre, in tombe scavate all’interno dello stesso villaggio. La sistemazione delle piccole capanne di Merimda dimostra che questa comunità non conosceva nessuna gerarchia.

Le case di campagna

All’Antico Regno (2635-2155 a.C.) risalgono dei piccoli modelli di case rinvenuti in alcune tombe. Essi facevano parte del corredo funebre e mostrano un tipo di casa rurale che poi è diventato la tipologia predominante nel corso di tutta la storia egiziana fino ai nostri giorni. Queste case avevano uno o due piani e un loggiato sul tetto al quale si accendeva tramite una scala esterna. La casa stava al centro di un cortile chiuso da un recinto.

 
Plastico di terracotta di una casa egizia (XII dinastia)

Tutte le comuni case egiziane erano costruite con mattoni di fango raccolto nel letto del Nilo, il materiale più economico e disponibile che si poteva trovare. Il fango, mischiato con della paglia tritata, veniva modellato in stampi di legno che davano così forma ai mattoni. Questi furono dapprima essiccati all’ombra (per evitare che un’essiccazione troppo rapida provocasse delle crepe), poi al sole. Alla fine di questo procedimento erano duri quasi come fossero di pietra. Nel clima secco e poco piovoso dell’Egitto, il mattone di fango era un ottimo materiale la cui produzione costava poca energia. La tecnica di costruire con blocchi di terra cruda oggi è chiamata “adobe”, parola derivante proprio dal copto tob – mattone.

Il legno era invece un materiale molto caro e usato unicamente per pilastri e travi. Nella costruzione delle case la pietra si usava quasi solo per gli stipiti, le soglie e gli architravi delle porte e finestre.

Come si può ben comprendere, la muratura fatta con mattoni di fango non era molto duratura; già dopo pochi anni bisognava procedere a interventi di riparazione, anche se la gente non attribuiva molto valore alle proprie case. Nella sua Bibliotheca historica, Diodoro Siculo a tal proposito racconta (2):

“Gli abitanti considerano poco la loro vita sulla Terra, mentre ne attribuiscono molta all’esistenza della gloriosa memoria dopo la morte. Essi chiamano “alberghi” le case dei vivi perché vi si abita solo per breve tempo, mentre chiamano le tombe  “case eterne” dove continuare a vivere dopo la morte. Per questo motivo investono poco sforzo nella costruzione delle case; ma sono solleciti ad arredare le loro tombe con un arredo insuperabile”.

La differenza tra le case dei vivi era principalmente la dimensione e la qualità dell’esecuzione dei lavori. Le case della gente povera erano piuttosto delle tane in cui dormire che delle vere e proprie case, non avevano finestre e l’unica apertura era quella d’ingresso davanti alla quale c’era uno spiazzo coperto da una tettoia, un posto ombreggiato dove le donne potevano cucinare o tessere al riparo dal sole. Anche gli animali della casa vivevano in quel cortile e non raramente dormivano nella capanna, insieme a tutta la famiglia.

Verso la fine dell’Antico Regno, questa primitiva dimora si trasformò in una casa più confortevole con diverse stanze. Lo spiazzo davanti alla porta d’ingresso diventò una veranda ombreggiata da una tettoia sorretta da pilastri di legno. I muri avevano ora un maggiore spessore per sopportare anche peso di un secondo piano. Gli stipiti, gli architravi e le soglie erano fatti di pietra, soprattutto se nei dintorni c’erano delle cave di pietra o vecchi edifici da smantellare. Le case non avevano fondamenta, si costruiva direttamente sulla nuda roccia o, quando si trattava di ricostruire un edificio crollato, su un fondo di macerie inumidite, livellate e poi lasciate asciugare al sole.

 
Produzione di mattoni di fango

I tetti erano leggeri, fatti con travi di legno e frasche coperte da una soletta d’argilla indurita e imbiancata per meglio riflettere i raggi del sole. Su questo tetto piano spesso si allestiva anche una leggera tettoia sotto la quale si conservavano all’asciutto frutta e ortaggi e dove, come già detto, vi si poteva anche dormire, perché durante la notte era il luogo più fresco e ventilato di tutta la casa. Un alto parapetto eretto verso la casa accanto garantiva anche un po’ di privacy.

Le finestre di queste case erano di piccole dimensioni e situate nella parte alta delle pareti. Esse servivano principalmente alla ventilazione e non all’illuminazione, e potevano essere chiuse con tende ricavate dal papiro. Le finestre delle case più ricche erano munite di grate per garantirsi una certa sicurezza.

L’arredo delle case, anche quello delle più ricche, era molto essenziale, soprattutto a motivo della scarsità del legname, e consisteva normalmente solo in sgabelli a tre piedi e in ceste grandi e piccole. Alla sera e durante la notte, si usavano lampade di terracotta o di pietra scolpita riempite con olio o grasso d’animale e con uno stoppino fatto di lino oppure di lana. Ma la vita della gente si svolgeva tutta al ritmo solare: ci si alzava al sorgere del sole e si andava a letto al tramonto. In alcuni casi, il padrone di casa dormiva in un posto separato dal resto della famiglia da una tenda fatta con una pelle.

Le case di città

Le case di città erano diverse da quelle di campagna. Esse avevano solitamente due o tre piani ed erano costruite una presso l’altra. Il piano terra era destinato alle attività lavorative e commerciali, mentre i piani superiori servivano da abitazione. Anche queste case avevano tetti piani, dove, nella stagione calda, era usata per dormirci. Sul tetto, però, c’era spesso anche una sorta di cucina dove era più sicuro tenere acceso un fuoco piuttosto che all’interno della casa e dove il vento poteva asportare facilmente il fumo.

La casa di Djehutinefer

Possiamo dire di conoscere abbastanza bene almeno una casa, quella di Djehutinefer, scriba e tesoriere reale sotto il re Amenhotep II (1427-1400 a.C.) che svolgeva anche un’attività produttiva e commerciale, e la conosciamo grazie a un dipinto ritrovato nella sua tomba sul quale è raffigurata una sezione dell’edificio di forse tre piani (dai dipinti non è sempre chiaro evincere se gli spazi si sviluppano in orizzontale o in verticale, ogni tanto, i locali, geometricamente disposti l’uno accanto all’altro, sono disegnati come se fossero accatastati l’uno sopra l’altro).

 
La casa di Djehutinefer (N. de Garis Davis)

In base ai pilastri e alle colonne, la superficie dei tre piani di questa casa è stata stimata intorno a 300 metri quadri. Rispetto alle case della gente comune, quella di Djehutinefer era molta spaziosa e convenientemente confortevole, anche se decisamente molto più piccola rispetto ai palazzi aristocratici di quell’epoca.

Al piano terra possiamo vedere dei servi intenti a filare e a tessere a due telai verticali. Più a destra, un altro servo che invece macina il grano e uno che setaccia la farina, compito questo molto importante, perché il macinato conteneva sempre piccoli frammenti di pietra provenienti proprio dalla macina. I servi, solitamente, lavoravano e abitavano negli stessi locali.

Il primo piano superiore della casa è destinato alla vita della famiglia. Nella stanza principale, la ga’a, il dipinto mostra il signore della casa che sta seduto su una sedia posta su una pedana e due servi che gli offrono un rinfresco e dei fiori. Le quattro piccole finestre poste in alto, direttamente sotto il soffitto, procurano aria e un po’ di luce. La stanza è più alta di tutte le altre ed è probabilmente la meglio arredata poiché è il luogo in cui il proprietario soggiorna e riceve le visite.

Al secondo piano superiore si trova una specie di ufficio. Il dipinto mostra ancora il padrone di casa seduto su una sedia a sua volta su una pedana. Un servo scaccia le mosche con un ventaglio, mentre un altro porge una bibita. Due scribi attendono gli ordini del signore.

Sul tetto, dove si trovano i depositi per il grano, si preparano le pietanze che, una volta pronte, vengono portate giù per la scala.

Tutti i solai sono retti da pilastri di legno con tre differenti capitelli, semplici e disadorni nei locali dei servi, più elaborati nei piani superiori.

Non tutti gli egiziani di città possedevano un’abitazione così grande come quella di Djehutinefer o, almeno, costruita in uno spazio nettamente separato da quello del vicino. Nelle città, la proprietà di terreni e i diritti di passaggio erano spesso condivisi tra diversi abitanti e raramente i confini erano molto precisi o chiari, cosa che spesso portava a tensioni tra i vicini.

Nonostante che le antiche case egizie della gente comune e quelle dei ricchi fossero molto diverse, avevano una caratteristica in comune: entrambe le tipologie erano costruite in maniera tale da rendere comunque confortevoli le condizioni climatiche interne.

Come detto, le finestre erano piccole e servivano soprattutto alla ventilazione piuttosto che all’illuminazione. Erano dotate di imposte che servivano a tener fuori mosche, polvere e caldo (3). Alcune case avevano sul tetto delle aperture che captavano i freschi venti notturni; la brezza attraversava la casa e usciva dalle porte e dalle finestre, rinfrescando così gli ambienti.

Ville e palazzi con giardino

Un’altra fonte di freschezza per una casa era un giardino con alberi e una piscina; ma questa soluzione se la potevano permettere solo le persone più che agiate poiché potevano costruirsi una villa o un palazzo in campagna, sui terreni dei loro stessi possedimenti.

Il giardino di un alto ufficiale del faraone Amenhotep (Amenofis) III, Tebe (noto anche come il giardino di Senefer)   
 
Queste ville avevano stanze alte con soffitti sorretti da colonne, finestre munite di grate, talvolta anche molto decorative, pavimenti in ceramica e pareti decorate. I piani superiori avevano delle finestre chiudibili con delle tende che servivano soprattutto a tenere fuori di casa l’aria calda, la polvere e gli insetti. Coloro che potevano permetterselo costruivano la propria casa non con blocchi di fango, bensì con pietre di cava, oppure, se magari nei pressi c’era un edificio pubblico da smantellare, con le pietre di recupero già squadrate.

Una scala portava sul tetto dal quale il padrone poteva vedere i campi della sua tenuta. Le ville erano circondate da giardini, dove c’erano vasche con fiori di loto e pesci, aiole, alberi, arbusti e un piccolo tempietto privato. Non lontano dalla casa padronale c’erano sempre i granai, le stalle e i quartieri riservati ai servi. Un muro, spesso merlato, cingeva la proprietà a cui si accedeva passando per un grande portone d’ingresso.

Le case dei ricchi avevano anche bagni e servizi igienici. I soliti pavimenti di terra battuta non andavano bene per i locali dei bagni, perciò, in un angolo, era posata una grande lastra di pietra e anche le pareti erano rivestiti di pietra. L’acqua di risulta del bagno poteva colare in un vaso che poi poteva essere all’occorrenza svuotato a mano, oppure venire dotato di fori sul fondo da dove l’acqua percolava lentamente nel sottosuolo. Le acque reflue delle case erano smaltite in pozzi neri, nel fiume o direttamente sulla strada (4).

Erodoto (5) racconta che: “……. fanno i loro bisogni in casa e mangiano sulla strada, e giustificano questo uso dicendo che le cose indecorose bisogna farle in casa, quelle che non sono indecorose invece pubblicamente”.

L’acqua era attinta dai pozzi pubblici e privati, almeno sin dal Nuovo Regno. A PiRamsete, una città sul delta, sono stati scoperti dei pozzi pubblici, il maggiore dei quali aveva un diametro di cinque metri e una scala a chiocciola che portava giù fino all’acqua, ma nonostante questo, il livello era troppo basso e l’acqua doveva essere sollevata tramite uno shaduf.

L’acqua si attingeva anche direttamente dal Nilo, o, peggio ancora, da un canale di ristagno e questo, comprensibilmente, causava gravi problemi di salute tra la popolazione. La diarrea e la schistosomiasi erano malattie molto diffuse. Oltre la valle del Nilo, nel deserto, l’approvvigionamento idrico era ancora più oneroso e difficile da gestire.

Note

(1) Gli antichi egizi chiamavano il loro paese Km.t, “Terra nera”, espressione che si riferisce alla terra fertile della Valle del Nilo, e che la distingue dalla “Terra rossa”, cioè dai deserti (DSr.yt) che si estendono a est e a ovest della valle. 
(2) Diodoro Siculo, Bibliotheca historica, secondo la traduzione in tedesco di Gerhard Wirth e Wilhelm Gessel, cap. 51
(3) Con le parole del personaggio di Ankhsheshonq: "Una finestra con una larga apertura  procura più caldo che fresco" (M. Lichtheim, Ancient Egyptian Literature, Vol.3, p.175)
(4) A questo proposito il greco Eraclide descrive come il 5 maggio del 218 a.C. una donna egiziana, chiamata da Eraclide Psenobastis gli avesse gettato addosso un vaso di urina mentre attraversava a cavallo il villaggio di Psia nel Fayyum. Poi la donna gli strappo il vestito e lo sputò in faccia. Eraclide forse aveva vissuto in Egitto, ma si dimostrava greco nell’aspetto e nel comportamento. Non conosceva sufficientemente bene la lingua egizia, altrimenti avrebbe saputo che Psenobastis era un nome da uomo.
Fonte: Unijournal, Zeitschrift der Universität Trier, Zentrum für Altertumswissenschaften, Jahrgang 29/2003
(5) Erodoto, Storie II, 35

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