sabato 28 settembre 2013

Clima mediterraneo - Roma antica - Le abitazioni della gente


Le insulae

Per quanto riguarda le condizioni abitative in città, le nostre informazioni bibliografiche si limitano quasi del tutto alla città di Roma. Del resto ci si può basare solo su testimonianze archeologiche come quelle provenienti dagli scavi in Pompei, Ercolano e alcune altre città abbandonate già in epoca romana e non più ricostruite (Africa settentrionale, Francia, Svizzera). 

In città, solo il ceto più ricco viveva in grandi domus. La maggior parte della popolazione cittadina abitava in piccoli edifici a due, al massimo tre piani, in cui si trovavano anche gli ambienti di lavoro. In una grande città come Roma, che, nei primi secoli della nostra era, continuava ad espandersi, lo spazio edificabile era molto limitato e la penuria di aree edificabili pressoché costante: bisognava perciò costruire in verticale. Le case a più piani cominciarono a diffondersi già nel II secolo a.C. e, alla fine dell’era repubblicana, queste costruzioni erano così numerose che Cicerone poteva parlare di Roma come di una città “sospesa per aria” (1): Romam cenaculis sublatam atque suspensam.  E Vitruvio scrive (2): “la maestà dell’Urbe, l’accrescimento considerevole della sua popolazione portarono di necessità un’estensione straordinaria delle sue abitazioni, e la situazione stessa spinse a cercare un rimedio nell’altezza degli edifici”.

All’epoca di Traiano (53-117 d.C.), Roma contava oltre un milione di abitanti e la stragrande parte della popolazione romana abitava in alti casermoni multipiano, detti insulae, che comprendevano molti alloggi d’affitto (cenacula). Nel IV secolo d.C., a Roma si contavano ben 46.602 di queste insulae, e le già menzionate 1797 domus (3).

Il nome insula deriva probabilmente dall’antica legge delle XII Tavole che prescriveva che ogni edificio fosse isolato da quelli accanto da un ambitus, un’intercapedine di due piedi e mezzo (45 cm), ma questa disposizione doveva essere caduta in disuso molto presto. L’ambitus doveva garantire l’accesso all’edificio da tutti i lati in caso di incendio. In molti testi, l’insula è opposta a domus, anche per distinguere i caseggiati con alloggi d’affitto dalle case di proprietà.

Le insulae erano antitetiche alle case ad atrio: sviluppo verticale e disposizione degli ambienti gravitante non più verso l’interno ma verso l’esterno. Le facciate avevano tante finestre che davano luce agli alloggi indipendenti a cui si accedeva dalla strada tramite scale sboccanti sul relativo piano. 

Resti di alcuni di questi caseggiati si sono conservati fino al secondo piano, ma non a Roma, bensì a Ostia antica. Sulla base di questi ritrovamenti, alcuni studiosi hanno calcolato l’area occupata da una di queste insulae: le dimensioni vanno da 200 a oltre 300 metri quadri con una media di 240 metri quadri (4).

 
Ostia, Casa dei giardini (Fonte: G.Calza & G.Becatti)

I grandi palazzoni in cui abitava letteralmente ammassato il popolo romano, erano alti cinque o sei piani verso la strada; l’altezza su linee arretrate era ancora maggiore. Negli alloggi non c’era né acqua, né riscaldamento e scarsissima luce. L’acqua bisognava prenderla alle fontane pubbliche (che erano disponibili in numero abbondante), ma nessuno se la sentiva di trasportarla fino agli ultimi piani degli edifici. Non esistevano servizi igienici, al massimo c’era un pozzo nero al piano terra, l’orina, se non la si gettava direttamente in strada dalla finestra, veniva raccolta in grandi orci al piano terra, ritirata da particolari imprese e venduta alle tintorie e concerie. Chi voleva prepararsi un pasto caldo a casa si serviva di un braciere che, in inverno, era anche l’unica fonte di calore, anche se, come riscaldamento, serviva a poco poiché si cucinava sul balcone o presso una finestra per facilitare la dispersione dei fumi acri e dannosi.

In una tipica insula, al piano terra c’erano delle botteghe, delle taverne e dei laboratori d’artigianato con ingressi propri. L’altezza dei piani terra consentiva l’inserimento di soppalchi di legno (pergulae) dove, spesso, l’artigiano doveva arrangiarsi ad abitare con tutta la famiglia, servi inclusi. Al primo piano, il piano “nobile”, c’erano alloggi eleganti (caenacula) con balconi (maeniana), affittati a famiglie facoltose, anche se non propriamente ricche. Al secondo piano, gli alloggi erano ancora eleganti, ma avevano balconi fatti di legno, detti pergulae. Man mano che si saliva, gli alloggi diventavano sempre più modesti ed erano occupati da gente sempre più povera.  Gli ultimi piani erano spesso sopraelevazioni lignee e alcuni di essi direttamente sotto il tetto, da cui certo si doveva godere di una magnifica vista sulla città, ma gli alloggi erano sempre più miseri, minuscoli e dal soffitto basso. In una unica stanzetta, non di raro, abitava una numerosa famiglia. Le pareti erano di legno o di sottile laterizio che, chiaramente, non riparavano né dal caldo, né dal freddo, né dal rumore.  Le finestre, anche quelle ampie dei primi piani superiori, erano prive di vetri. In nessuna delle insulae sono mai stati ritrovati frammenti di vetro o di mica. Le abitazioni erano riparate dalle intemperie con teli o pelli e, in qualche caso, con imposte di legno a uno o due battenti con cui si tentava di proteggersi dal freddo, dalla pioggia, dalla canicola o dalla tramontana (5). La scelta obbligata era tra la luce e il vento.

Ostia. Sezione di un palazzo residenziale multipiano, Insula
(Fonte: E. Brödner: Wohnen in der Antike)

Questi enormi palazzi non erano collegati a nessun acquedotto. L’acqua arrivava, al massimo, ai piani terra. Gli inquilini dei piani superiori dovevano rifornirsi d’acqua alle numerose fontane pubbliche (ad usum popoli). Si diffuse pertanto il mestiere dei portatori d’acqua (aquarii), designati da Marziale come gli ultimi degli schiavi. Questi, per un modestissimo compenso e con enorme fatica, portavano l’acqua a chi poteva permettersene la spesa. Questi lavoratori erano spesso venduti direttamente con l’immobile in cui prestavano servizio.

Ostia. Restituzione grafica della facciata di una insula
(Fonte: E.Brödner: Wohnen in der Antike)

Quindi non sorprende che nei piani più alti si ammucchiasse la sporcizia più degradante, nessuno si curava di pulirli, anche perché nessuno riusciva a portare dell’acqua fin lassù. I rifiuti si buttavano giù per le scale o direttamente sulla strada.

Come detto, gli abitanti delle insulae non avevano a disposizione alcun sistema di riscaldamento, né caloriferi, né caminetti. Tutto quello che potevano usare erano dei bracieri e quindi la loro salute era sempre minacciata dai velenosi fumi e gas, ed erano costantemente esposti al pericolo di devastanti incendi e terribili crolli.
 
Ostia antica - Ciò che è rimasto delle insulae
(Foto: Uwe Wienke)
 

Di regola, gli alloggi erano in subaffitto e, oltretutto, carissimi, più cari che in qualsiasi altra città d’Italia. Le insulae vennero costruite a scopi puramente speculativi dai ricchi che le davano in gestione a imprese le quali, a loro volta, le affittavano e ne incassavano anche gli affitti, non raramente con metodi molto duri.

Periodicamente, gli inquilini, erano costretti a subire sfratti messi in esecuzione a viva forza unicamente allo scopo di aumentare il canone d’affitto e, prima di trovare una nuova dimora, questa povera gente viveva praticamente sulla strada dormendo sotto uno dei numerosi porticati, agli angoli, o in qualunque posto un po’ riparato. Era un po’ come si fa oggi in molte città europee, dove le vecchie case, prima di demolirle, sono affittate, a carissimo prezzo, agli extracomunitari che pagano per un posto letto.

Negli alloggi non c’era spazio e quindi, ogni mattina, una marea di gente si riversava sulle strade: chi per recarsi in una delle case dei benestanti dove offrirsi per un lavoro, chi per lavorare in una bottega o in cerca di un qualunque lavoro occasionale. Come avviene anche oggi nelle grandi metropoli d’Oriente, molta gente viveva del piccolo commercio, vendeva acqua e bibite, cercava nei rifiuti per scovare qualche oggetto ancora utilizzabile che magari si potesse rivendere …..insomma, si cercava in tutti i modi di sbarcare il lunario, come suole dirsi.

Bisogna un’altra volta ricordare che in antichità, e ancora nel medioevo, la maggior parte della gente, non solo quella di campagna, ma anche quella urbana, trascorreva le sue giornate all’aperto, nelle vie e nelle piazze. La casa serviva a loro principalmente a dormire, quindi non c’era una grande richiesta di illuminazione. In una grande città come Roma,  non occorreva nemmeno di cucinare a casa. Era di solito più conveniente comprare il cibo in una dei molteplici osterie, chiamate  popinae o thermopolium.

E il sole? Negli alloggi delle insulae non penetrava che poca luce, nonostante le finestre sulla strada. Questi edifici erano alti e le vie erano molto strette. “L’ampiezza media delle vie era di 4,50 – 5,00 metri; le vie più grandi erano larghe circa 6 metri e soffocate da costruzioni molto alte”, scrive Ferdinando Castagnoli (6) uno dei maggiori studiosi della topografia di Roma antica. Con i 21 metri, limite imposto da Cesare, e i 18 metri consentiti da una legge di Traiano, l’altezza dei “casermoni” era tre volte quella della larghezza stradale. Il Sole arrivava solo ai piani più alti, paradossalmente erano gli alloggi più miseri a ricevere più luce (che penetrava però anche attraverso le crepe e le fessure nella muratura) e questi, durante il giorno erano solitamente vuoti, perché tutti si trovavano fuori, nelle strade, nelle piazze, nei bagni pubblici o nel circo, in luoghi dove era più probabile trovare un “posto al sole”, un lavoretto occasionale o anche solo un tozzo di pane secco. (vedi disegno)

Chi invece vuole proprio andare a scoprire come in epoca romana gli architetti sapevano sfruttare il sole in maniera passiva, non deve far altro che studiare le grande terme e i bagni pubblici dell’epoca imperiale.

Conclusione

Oggi, l’ambiente principale di una casa è il salotto dotato di grandi finestre che permettono di far penetrare molta luce, consentono la vista verso l’ambiente esterno e che lo rendono più luminoso rispetto agli altri locali. Totalmente diverso è il concetto dell’abitare in antichità. Una casa doveva essere chiusa esternamente e solo botteghe e taverne si aprivano verso la strada. Le stanze si aprivano invece verso un cortile centrale o, nel caso della domus con peristilium, verso un giardino, anch’esso chiuso verso la strada e le altre proprietà.

Sembra proprio che l’architettura volesse escludere, al massimo possibile, il sole dalle case. L’ambiente più caratteristico della casa romana, l’atrium, prende invece luce solo dall’alto, attraverso il compluvium inciso nel tetto. La luce che penetra da quest’apertura illumina appena i locali che circondano l’atrium. Altra luce può penetrare dal piccolo giardino dietro la casa, ma l’illuminazione e il soleggiamento migliorano solo quando all’edificio viene aggiunto un grande giardino (peristilio). Il peristilio, con il suo porticato, consente di godere il sole in inverno, ma soprattutto di potersi riparare alla sua ombra in estate, stagione in cui le piante e le fontane nel giardino procurano ulteriore freschezza. Disporre le stanze con un preciso riferimento al sole, secondo le teorie di Vitruvio, è possibile solo nelle grandi ville con peristilio, cioè laddove si ha spazio sufficiente per realizzare un grande giardino e l’altezza della casa non superi i due piani.

Infatti, il porticato è il più utile elemento architettonico dell’epoca greca e romana. Esso offre riparo quando piove e ombra quando il sole picchia forte. E’ un luogo che offre freschezza perché aperto da un lato e lascia entrare il vento. Per questo nelle antiche città greche e romane c’erano molti porticati, chiamati stoa dai Greci e porticus dai Romani. Vitruvio consiglia la costruzione di portici vicino ai teatri, affinché la gente possa rifugiarvisi qualora lo spettacolo dovesse essere interrotto a causa di improvvisi acquazzoni (7). Inoltre si rivelano molto utili anche per accatastarvi le provviste di legna che, in caso di assedio, sono cose difficili da reperire.  “Così”, scrive Vitruvio, “i passeggi (porticus ambulationes) all’aperto offrono due grandi vantaggi: uno per la salute in tempo di pace e l’altro la sicurezza in tempo di guerra”.

Note

(1) Cicerone, De Leg. Agr., II, 96
(2) Vitruvio, II, 3, 63-65 Vitruvio, II, 3, 63-65
(3) Carcopino, Jérôme: La vita quotidiana a Roma, Roma/Bari 2008, p. 28
(4) Castagnoli, F.: Topografia e urbanistica di Roma antica. Bologna 1969, p. 167
(5) Carcopino, Jérôme: La vita quotidiana a Roma, op. cit., p. 46
(6) Castagnoli, Ferdinando:Topografia e Urbanistica di Roma antica, Bologna 1969, p. 65
(7) Vitruvio, V, IX

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